martedì 26 aprile 2011

Alta fedeltà

Titolo: Alta Fedeltà
Titolo originale: High Fidelity
Autore: Nick Hornby
Anno: 1995

Il libro…

Copertina edizione inglese
Dopo About a Boy – Un ragazzo torno a occuparmi di Nick Hornby, garanzia di abilità e di qualità narrativa. In sua compagnia si passano buoni momenti, ci si lascia andare a qualche sonora risata, spesso si sorride e moltissime altre volte ci si trova a esclamare “Cacchio, ha proprio ragione!”, soprattutto quando descrive sensazioni e situazioni tanto simili a quelle che anche a noi è capitato di vivere o provare. Ma c’è anche spazio per pensieri agrodolci e profondi su quel fatidico momento – che presto o tardi arriva – chiamato eufemisticamente "età della ragione". Senza dubbio Hornby non ci tedia con riflessioni sociologiche d’accatto sul declino della società, sull’assenza di valori delle nuove generazioni o sulle disparità fra classi, né ci rovescia addosso il suo moralismo o le sue frustrazioni.
Al massimo ci invita a considerare alcuni aspetti della nostra società, della maniera con cui si sviluppano le relazioni sociali e delle modalità con cui l’uomo medio tenda ad affrontare o ad evitare i problemi che gli si parano davanti. Ci parla degli anni Novanta, quelli dell’individualismo, del ritiro alla vita privata, della maturità costantemente rinviata, quelli del disimpegno (evviva!) e della non appartenenza forzata ad alcun gruppo.
Rob Fleming è un “ragazzo” di trentacinque anni che abita in un piccolo appartamento situato in quartiere a nord di Londra. È proprietario del “Championship Vinyl”, un negozio di dischi che resiste soprattutto grazie alla passione di chi ci lavora e non di certo per i magri guadagni che realizza. La sua è sempre stata un’esistenza tranquilla, senza particolari scossoni. Una vita fatta da piccoli e grandi interessi, innaffiata da buona musica quotidiana, da rituali bevute al pub con gli amici chiacchierando di dischi, film o programmi tv e a volte intervallata da incontri con ragazze più o meno attraenti. Una vita che Rob vorrebbe prolungare immutata all’infinito.
Ma siccome l’infinito non esiste, le cose, ora, stanno cambiando e in peggio. Rob è ormai prossimo a quel maledetto bivio - ignorato o sottovalutato per lungo tempo - che costringe a scegliere tra il continuare una vita spensierata in stile post-adolescenziale e, invece, imboccare la strada di un’esistenza matura e consapevole dei propri doveri. La decisione “sul cosa farò da grande” non può più essere rinviata, nonostante Rob continui a puntare i piedi per terra, cercando di rallentarne l’avvicinamento.
Il libro inizia proprio qualche giorno dopo la rottura con la sua ragazza, Laura, stanca dei suoi “forse” e delle sue esitazioni.
Il problema di Rob non è legato al semplice rifiuto a invecchiare (almeno finché si riesce a portare un giubbotto di pelle o a rimanere vagamente informati sulle ultime novità musicali). Piuttosto la questione riguarda l’accorgersi che si è ormai fuori tempo massimo per seguitare a fingere che gli anni non passano e che, superati i trenta, non è più consentito (pena cadere nel patetico) credere nei sogni di quando si aveva vent’anni.
Si tratta di qualcosa di più profondo, come una paura delle situazioni definitive che non di una forma della sindrome di Peter Pan: ciò che atterrisce Rob non è tanto raggiungere la vita adulta, ma è la dolorosa consapevolezza di non poter più limitarsi a soddisfare solo le proprie esigenze ma di dover pensare anche a quelle degli altri (quella della sua compagna, per esempio), in un oscillamento costante tra un egoismo un po’ infantile e un richiamo a una condotta più responsabile. Inoltre, è sconfortato al pensiero di doversi rassegnare alla banalità e alla ripetitività che – nella stragrande maggioranza dei casi – la vita adulta porta con sé; un’esistenza spesso uguale a quella dei propri amici, vicini di casa o genitori: matrimonio, acquisto di una casa con mutuo, nascita dei figli, un’attività mediamente monotona, tempo libero speso guardando la tv, andando al cinema o al centro commerciale. 
Tutto ciò lo scopriamo dalla viva voce di Rob, che in una specie di confessione molto sincera e dai toni altrettanto divertenti e scanzonati, ci porta a conoscere il suo mondo, interiore ed esteriore, così pieno di contraddizioni, paure, sentimenti incompiuti, amici bislacchi e incontri particolari. Il tutto è talmente vero che ci si immedesima, provando istintivamente simpatia. Carattere distintivo del suo modo di raccontarsi è quello di stilare classifiche: partendo da quella delle separazioni più importanti, passando per quella dei 5 miglior dischi, libri o film americani, e arrivando fino a quelle dei lavori da sogno o delle musiche che si vorrebbero suonate al proprio funerale.
Elementi come dialoghi convincenti, la precisa descrizione di situazioni e sensazioni “reali”, e soprattutto una quantità enorme di riferimenti alla cultura pop e dei consumi rendono il libro di Hornby uno di quelli che ti ricordi anche mesi dopo averlo letto. Insomma, lo rendono "tuo". 
…dal libro al film…
Stephen Frears confeziona una pellicola gradevole che si lascia guardare. Rob è interpretato da John Cusack (non proprio mister simpatia…), in questo frangente ben calato nel personaggio. Guarda in macchina e rivolgendosi agli spettatori spiattella alcuni monologhi sulla falsariga di quelli del libro.
Bravo Jack Black nella parte di Barry, l’insopportabile e invadente amico-commesso del negozio di dischi di Rob (un ruolo che calza a pennello a Black…).
Al contrario, oscura e senza un vero perché la scelta di ambientare la storia a Chicago anziché a Londra, come se immedesimarsi con una vicenda che ha luogo nella capitale inglese fosse troppo complicato per un cittadino americano… misteri holliwoodiani.
Un consiglio da amico: leggetevi il libro.

CHARLIE CITRINE

Dati film:

Titolo: Alta Fedeltà
Titolo originale: High Fidelity
Regista: Stephen Frears
Sceneggiatura: D.V. De Vincentis, Steve Pink, John Cusack, Scott Rosenberg (romanzo: Nick Hornby)
Interpreti:
·         John Cusack (Rob)
·         Jack Black (Barry)
·         Iben Hjejle(Laura)
·         Todd Louiso (Dick)
Anno: 2000
Paese: USA, Gran Bretagna
Colore: Colore
Durata: 113 minuti
Genere: Commedia/sentimentale
Internet Movie Data base

 
Piccola novità: al posto del solito filmato, un estratto dal libro (Guanda Editore, 1996, pp. 179-180):

Copertina edizioni Guanda
"Guardo le coppie che entrano in negozio, e le coppie che vedo nei pub, e sul bus e al di là dalle finestre. Alcune, quelle che parlano e si toccano e ridono e fanno un sacco di domande sono, ovviamente, coppie recenti, e non contano: come la maggior parte della gente, anch’io funziono bene quando la coppia è nuova. Per questo mi interessano solo le coppie più stabili, più quiete, quelle che hanno cominciato ad avanzare nella vita schiena a schiena, o fianco a fianco, anziché faccia a faccia. Non gli si legge molto, sulle facce, davvero. Non c’è una gran differenza fra costoro e quelli che non sono in coppia; provate a classificare le persone che incrociate per strada secondo le quattro categorie esistenziali – felicemente accoppiati, infelicemente accoppiati, single e disperati – e vi accorgerete che è impossibile. O piuttosto, un tentativo si può fare, ma niente ti dice se ci hai azzeccato o no. Mi sembra assurdo. È la cosa più importante della vita, e non riesci a capire se la gente ce l’ha o no. Chiaramente c’è qualcosa che non va, no? Chiaramente quelli che sono felici dovrebbero apparire tali, in ogni momento, indipendentemente da quanti soldi hanno in tasca o da quanto scomode siano le scarpe che portano o da quanto poco li lasci dormire il loro bebè; e quelli che non se la passano troppo male, ma ancora non hanno trovato l’anima gemella, dovrebbero apparire, non so, felici ma inquieti, un po’ come Billy Crystal in Harry ti presento Sally;e quelli che sono disperati, dovrebbero portare qualcosa, magari un nastro giallo, che gli permetta di essere identificati da altri egualmente disperati. Quando non sarò più così disperato, quando avrò sistemato tutta questa faccenda, prometto fin d’ora che non mi lamenterò più di come va il negozio, o della mancanza di anima della moderna musica pop, o della scarsità di imbottitura dei panini del bar qui davanti (1 sterlina e 60 per un panino con insalata, maionese e bacon, e nessuno di noi che abbia mai trovato più di quattro pezzettini di bacon a panino) o di qualsiasi altra cosa. Sorriderò tutto il tempo, radioso e beato, per il puro e semplice sollievo".

martedì 19 aprile 2011

La solitudine dei numeri primi

Titolo: La solitudine dei numeri primi
Autore: Paolo Giordano
Anno: 2008

Il libro…
Copertina - Mondadori
Oh, finalmente un binomio libro-film che non vale la pena né di leggere né di vedere! Per quanto valore abbiano i miei suggerimenti, per la prima volta dalla nascita del blog sono certo di non consigliare a nessuno di utilizzare il proprio tempo perdendosi nelle esistenze tribolatissime dei due "numeri primi" tanto menzionati e celebrati negli ultimi anni. Per la serie: se potete statene alla larga...

Il romanzo d’esordio di Paolo Giordano è davvero poca cosa (alcuni lo chiamano “caso letterario”…). Una storia strappalacrime, zeppa di stereotipi, assolutamente artificiale e che, per reggersi in piedi per tutte le oltre 300 pagine, si basa su un lungo e un po’ furbetto ricatto emotivo.
Prima di proseguire eccovi la trama che per comodità e pigrizia copio e incollo servendomi di quanto scritto sul sito di Mondadori alla pagina dedicata al libro di Giordano.
Alice ha sette anni e odia la scuola di sci, ma suo padre la obbliga ad andarci. È una mattina di nebbia fitta, lei ha freddo e il latte della colazione le pesa sullo stomaco. In cima alla seggiovia si separa dai compagni e, nascosta nella nebbia, se la fa addosso. Per la vergogna decide di scendere a valle da sola, ma finisce fuori pista, spezzandosi una gamba. Resta sola, incapace di muoversi, al fondo di un canalone innevato, a domandarsi se i lupi ci sono anche in inverno.
Mattia è un ragazzino intelligente con una gemella ritardata, Michela. La presenza costante della sorella umilia Mattia di fronte ai suoi coetanei. Per questo, la prima volta che un compagno di classe li invita entrambi alla sua festa, Mattia decide di lasciare Michela nel parco, con la promessa che tornerà presto da lei.
Questi due episodi iniziali, con le loro conseguenze irreversibili, saranno il marchio impresso a fuoco nelle vite di Alice e di Mattia, adolescenti, giovani e infine adulti. Le loro esistenze, così profondamente segnate, si incroceranno e i due protagonisti si scopriranno strettamente uniti eppure invincibilmente divisi. Come quei numeri speciali, che i matematici chiamano primi gemelli: due numeri primi separati da un solo numero pari, vicini ma mai abbastanza per toccarsi davvero.

Partiamo dai protagonisti, i famosi "numeri primi". Sono due cliché viventi, concentrato ambulante di sfighe esistenziali. In loro si raccoglie tutto quanto di deprimente può capitare a un essere umano durante le difficili età dell’infanza e dell’adolescenza: problematiche con il cibo, solitudine e incomprensioni, vessazioni da parte dei compagni bulli, genitori vuoti e aridi di sentimenti, incapacità nel rapportarsi con l’altro sesso, amici freak e al limite della schizofrenia, nessun interesse, onanismo mentale, bruttezza fisica. Insomma, di tutto di più. Questa concentrazione di negatività stereotipate li rende inevitabilmente piatti, privi di carattere e troppo sfortunati per essere veri. Non uno scatto, non un cambio di ritmo, non una mossa inaspettata. Così prevedibili da essere irreali, finti, di cartapesta dall’inizio alla fine della storia. Questa staticità e questa bidimensionalità portano noi lettori – che li seguiamo riga dopo riga, pagina dopo pagina – a non provare alcuna emozione. Non scatta nessuna empatia: né odio, né pietà, né sofferenza, né amore. Non si parteggia e non si fa il tifo contro. Semmai, dopo l’ennesima svolta prevista si comincia a provare una certa irritazione per la vuota e sciocca ostinazione di Alice e Matteo (non bisogna essere dei veggenti per sapere che cosa diranno, faranno o sceglieranno durante la storia).
Il fatto che la vicenda non sia ambientata in una specifica città (chi è attento, però, capisce che si tratta di Torino) e che non ci siano veri appigli sulla realtà (questi due ragazzi appaiono sospesi in un limbo atemporale) sono elementi che non aiutano a entrare in sintonia con le loro sofferenze, se non a un livello puramente superficiale.  
Non a caso risulta fastidioso il ricorso a situazioni emotivamente al limite del ricatto. Parlo di quelle cose tristi e pietose che mettono il magone in chi le sente (una bambina scomparsa, un incidente invalidante, l’umiliazione quotidiana etc). Si tratta di storie struggenti e patetiche che hanno come unico scopo quello di sobillare le corde più sensibili, anche di quelle persone dalla scorza più dura e cinica (me, per esempio). Ma che non vanno oltre a questo obiettivo.
Anche lo stile ne risente, risultando piuttosto monotono e raramente in grado di graffiare o colpire. Dialoghi volutamente (?) poveri e vagamente surreali.
Un plauso, invece, al titolo, davvero bello, di quelli che ti rimangono in mente (e non sto facendo dell'ironia).  
Incredibilmente celebrato e carico di premi (Strega e Campiello opera prima) il libro è stato tradotto in oltre 30 lingue…
“Nostra signora” Wikipedia, addirittura, lo colloca nel sottogenere di “romanzo di formazione”!!
…dal libro al film…

La pellicola avrebbe potuto migliorare la storia, valorizzarne gli aspetti più interessanti e meritevoli e invece... perde l'occasione per farlo. 
Alba Rohrwacher
Non so a quanti possa interessare quello che sto per dire, ma negli ultimi anni mi era capitato solamente un’altra volta di interrompere la visione di un film per manifesta noia o irritazione. Mi è capitato di addormentarmi, ma per il sonno esistono valide giustificazioni. Per esempio, può essere il normale risultato di una giornata di lavoro particolarmente dura; inoltre, il dormire sprofondati sul sofà non è affatto misura di un prodotto cinematografico scadente (anzi, succede di addormentarsi anche davanti a capolavori indiscussi). Dicevo che negli ultimi anni mi è capitato di interrompere una “proiezione” solamente con il film oggetto del post e con la riduzione cinematografica de Le particelle elementari di Houellebecq (romanzo superbo, pellicola inguardabile… ne parlerò prima o poi).
Tornando al film di Saverio Costanzo pare di  trovarsi di fronte a un prodotto a metà strada tra una fiction povera di mezzi e certe produzioni horror italiane anni Ottanta, tipo imitazione depotenziata di un film di Dario Argento (ma se si guarda il trailer vengono in mente anche i video di Maccio Capatonda...).  
In più, a complicare le cose, ci pensa la scelta del regista di narrare la vicenda passando di continuo dai flashback ai flashforward, ingarbugliando una storia che già di per sé non si fa proprio amare…
Degli attori, brava a prescindere (ma io sono di parte, avendo un debole per lei) Alba Rohrwacher nel ruolo di Alice da adulta.  
CHARLIE CITRINE

Dati film:
Titolo: La solitudine dei numeri primi
Regista: Saverio Costanzo
Sceneggiatura: Saverio Costanzo (romanzo: Paolo Giordano)
Interpreti:
·         Alba Rohrwacher (Alice)
·         Luca Marinelli (Matteo)
·         Isabella Rossellini (Adele)
·         Maurizio Donadoni (Umberto Balossino)
Anno: 2010
Paese: Italia, Francia, Germania
Colore: Colore
Durata: 118 minuti
Genere: Drammatico
Internet Movie Data base

domenica 10 aprile 2011

Il Nome della Rosa

Titolo originale: Il nome della rosa
Autore: Umberto Eco
Anno: 1980

Il libro…

Copertina - Bompiani
Quale altro libro oltre alla Bibbia inizia con le parole: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio” ?
Ebbene, anche “Il nome della Rosa” parte così. Dentro quest’ incipit si trova la chiave di lettura dei temi di questo celebre romanzo dove Eco forte di una minuziosa ricerca storica rende una narrazione in grado di rivelarci lo spirito del tempo medioevale e metterci di fronte a profonde tematiche filosofiche sulla natura umana e sulla conoscenza. Le pretese del libro che inizia con cotanta similitudine sono esaudite.
Con la finzione di riportare le memorie di Adso da Melk, ritrovate in un manoscritto (di manzoniana e borgesiana memoria) ci introduce nel Nome della Rosa, la cui trama basata su un impianto di genere giallo investigativo ( genere strausato e perciò ancor più difficile da maneggiare) narra i sette giorni trascorsi da Guglielmo da Baskerville, dotto francescano ed ex inquisitore e dal suo allievo, il novizio Adso, in un’abbazia benedettina dell’ Italia settentrionale nell’anno 1327.
Guglielmo è stato incaricato di organizzarvi un incontro tra la delegazione dell’Ordine Francescano e quella del Papa, allora dislocato ad Avignone e non a Roma, prima che lo scontro tra le tesi pauperistiche (quelle che volevano una Chiesa povera e priva di beni materiali) portate avanti dai francescani e quelle del potere temporale sostenute dal papato si acuiscano a tal punto da portare a una definitiva esclusione dall’ortodossia cattolica dei seguaci di San Francesco con conseguente persecuzione della Santa Inquisizione, già operante in Europa con il ferro e il fuoco contro tutte quelle frange di eretici che mettevano in discussione l’ autorità della fede cattolica.
Eco non parla mai di Lutero che verrà due secoli dopo, ma le tesi francescane qui narrate trovano già la sponda dell’ imperatore tedesco Ludovico il Bavaro che, tra l’altro, offrirà rifugi a molti eretici perseguitati dal papato. Insomma, non è un caso se sarà proprio la Germania a dare i natali alla Riforma Protestante.
Intanto, una serie di omicidi inspiegati di alcuni monaci rischia di offuscare la sede e il risultato dell’incontro tra le delegazioni. L'Abate priore del convento è preoccupato che la colpa possa ricadere su di lui, e confida nelle capacità inquisitorie di Guglielmo affinché faccia luce sui tragici omicidi, cui i monaci - tra l'altro - attribuiscono misteriose cause Apocalittiche con segnali della venuta dell’ Anticristo presenti sulla scena del crimine. Frate Guglielmo, invece, si limita a cercare puramente delle tracce.
(Per ricollegarmi al post de La Strada di McCarthy, direi che come si vede ogni epoca ha le sue paure apocalittiche e noi non siamo esclusi.)
La pensa così anche il grande inquisitore in arrivo, Bernardo Gui, incaricato della sicurezza della delegazione papale. Al suo arrivo, avvisato dei crimini, indagherà sui tristi accadimenti cercando di far luce su un mistero che si fa sempre più fitto. A questo punto Frate Guglielmo continuerà le indagini senza però aver più l’autorità di farlo, completamente a suo rischio.
Dietro questa ricerca del colpevole, nell’Abbazia si mostra quella che per secoli è stata davvero la sfida intellettuale tra i filosofi realisti e quelli nominalisti. Una disputa che si è protratta nei secoli e che ha toccato i filosofi empiristi inglesi dell’Ottocento da una parte e quelli Hegeliani dall’ altra, con strascichi - addirittura - fino all’ esistenzialismo del XX secolo. Ma volendo andare all’indietro si arriva anche ai presocratici, a Platone e ad Aristotele. Quest’ultimo tra l’ altro sarà fondamentale nello sviluppo della vicenda qui narrata.
Non sono temi da poco. Ecco perché Il nome della Rosa è ritenuto tra i libri italiani più importanti fra quelli scritti da autori contemporanei.
Il romanzo si conclude con un distico latino: "Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus" (ovvero: la rosa primigenia esiste in quanto nome, possediamo i semplici nomi).
Il nome "rosa" è conseguente all’essenza della rosa stessa o ne è parte integrante ?
Oppure torniamo di nuovo all’ incipit, ricordate? “Il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio” è, in fondo, la frase più sibillina del mondo: lascia spazio all’ interpretazione sia dei realisti che dei nominalisti.
Eco non spiega mai esplicitamente nel libro il motivo del titolo, ma la mia impressione è che risieda proprio qui, in questi dilemmi.
E’ su questa base, infatti, che si possono scovare anche i colpevoli dei crimini. Costoro possono essere addirittura diversi a seconda dell’atteggiamento adottato dagli inquisitori. Il primo approccio, quello realista o filosofico empirista di frate Guglielmo (che ha studiato a Oxford) sostiene che solo guardando i segni, le prove che la natura (che opera per conto di Dio) ci fornisce e senza voler aggiungere altro di nostro, potremo arrivare alla Verità per de-duzione appunto. Nessuno è depositario di verità incontestabili o non risibili, perché la verità, la rivelazione e la gioia appartengono a Dio e risiedono nel creato (la natura) che è opera Sua e di cui noi possiamo partecipare con atteggiamento non antagonista ma di attenta osservazione. Il Male in fondo sta nell’ uomo che non vede la bellezza del creato (tanto osannato da San Francesco) e la Rivelazione dalla natura delle cose.
Il secondo atteggiamento, opposto al primo, è quello nominalista , proprio di chi vuole vedere prima della natura l’esistenza di un disegno ritenuto divino, soprastante e lontano dalla realtà fisica come un qualcosa di razionale (erroneamente ritenuto spirituale) che proviene invece dalla mente stessa di chi lo ha creato (in questo caso, sia da quella del dotto inquisitore Bernardo Gui che da quelle dei frati ignoranti e impauriti dalla venuta dell'Apocalisse).
E come più volte mostrato durante la narrazione, frate Guglielmo ritiene che il Maligno si riveli dapprima prima nelle menti di chi lo vuol vedere, cioè proprio l'atteggiamento tipico dei nominalisti. Questo modo di pensare porta in sé una contorsione tanto perversa quanto diabolica, laddove i giustizieri della fede risultano essere più malvagi degli eretici che condannano perche lo fanno sulla base delle loro convinzioni umane ed erronee e non seguendo l’umile ricerca delle cose accadute realmente.
L’Inquisizione, braccio armato della Chiesa detentrice del dogma, della Verità, già designa i giusti e gli ingiusti ben prima di guardare le prove, i segni della realtà, contro ogni metodo scientifico. E una volta stabilito a priori - magari anche inconsciamente - chi deve essere l’eretico e chi il santo, procede alla ricerca di qualsiasi fatto visibile che sia solo da corredo e non da fondamento a una tesi di giudizio già decisa.
Questi segni del maligno si troveranno arbitrariamente e senza difficoltà nella natura, non più rivelatrice di nulla, ma fonte fisica e rigogliosa di peccato e di colpa.
Non andiamo lontano: ancora oggi c’è chi pensa che un terremoto come quello “apocalittico” in Giappone è stato causato da un “castigo divino”, non fa altro che cadere nell’ errore nominalista che avversa la natura e lo sguardo scientifico che noi possiamo volgere su di essa, e si atteggia a moderno Inquisitore, fuori tempo massimo.
Certo è che se la verità sta nella conoscenza , l’immensa labirintica Biblioteca dell’Abbazia ha qualcosa a che fare con i misteri delittuosi che si perpetrano tra i confratelli.

Il personaggio di Guglielmo da Baskerville ricorda palesemente il filosofo francescano inglese Guglielmo di Occam, maestro del metodo deduttivo celebre per la famosa teoria del “Rasoio di Occam” che davvero entrò nell'ordine francescano in giovane età, studiò all'Università di Oxford fra il 1307 e il 1318, intraprendendo l'insegnamento in seguito.
Accusato di eresia, subì un processo da parte dell'Inquisizione ad Avignone nel 1324, a seguito del quale cinquantuno sue enunciazioni teologiche vennero condannate dal pontefice Giovanni XXII. Fu successivamente assolto, anche se troppo tardi (alla sua morte...).
Si può ritenere che il modo di pensare di un empirista sia solo quello di un laico, invece Occam era un francescano, un uomo di fede che credeva nella bontà della natura.
Inoltre, il paese di provenienza di Guglielmo richiama alla memoria Il mastino dei Baskerville di Conan Doyle, e quindi Sherlock Holmes. Allo stesso modo Adso ricorda Watson, l’aiutante di Holmes anche nell’assonanza dei nomi. Il semiologo Eco non si smentisce qui e là lungo il testo.

…dal libro al film…

Sean Connery e Christian Slater nel film
Il film esce nel 1986, sei anni dopo il libro, diretto da Jean-Jacques Annaud. La fotografia e il cast ne hanno fatto un prodotto godibile.
Ricordiamo tra tutti Sean Connery nel ruolo di Guglielmo, un giovanissimo Christian Slater nei panni di Adso da Melk e Murray Abraham nelle vesti di Bernardo Gui.
Dopo 5 anni di preparazione il film venne girato in 4 mesi fra Cinecittà, il Monastero di Eberbach in Germania (l'Abbazia del film) e la suggestiva Rocca Calascio con le splendide colline d’ Abruzzo che rendono l’idea di come dovesse l’ Italia preindustriale.
"Annaud ha deciso", dice Eco, "di definire nei titoli di testa il suo film come un palinsesto dal Nome della rosa. Un palinsesto è un manoscritto che conteneva un testo originale e che è stato grattato per scrivervi sopra un altro testo. Si tratta dunque di due testi diversi".
La differenza principale rispetto all'originale sta nella rimozione delle discussioni teoriche, ritenute troppo complesse per poter essere riportate al cinema. Questo limite risulta però fatale.
La visione della storia è troppo riduttiva, semplice, meno inserita in un contesto culturale necessariamente complesso come nel libro, dove la soluzione del giallo e le chiavi interpretative sono sapientemente nascoste proprio nelle lunghe digressioni storico-filosofiche e qui invece resistono solo come divagazioni
Purtroppo ne risentono proprio i significati dell’opera: nella pellicola insomma tutto si riduce ad un bel giallo in una bella ambientazione storica ancor oggi resistente al tempo forse anche perche mostra un medioevo esagerando alcuni caratteri dell’epoca per avvicinarsi a come pensiamo davvero che fosse. Molto è affidato alla bravura di Sean Connery (frate Guglielmo) nelle indagini a sfondo noir, con autopsie degne di CSI e deduzioni al pari del dottor Walter Bishop del serial Fringe .
I personaggi sono troppo delineati e i cattivi addirittura puniti come il pubblico si aspetta che sia; anche il Bene e il Male, nell’opera di Eco volutamente enigmatici e difficili da districare, qui sono troppo divisi.
Un plauso va alla scena erotica dove Adso-Slater scopre l’amore grazie a una giovane e selvaggia contadina, molto più realistica di tante azioni di sesso spinto di molti film, che troppo spesso risultano o troppo patinate o troppo volgari proprio perché il regista non ha saputo ben dosare, come invece sa fare Annaud, il difficile equilibrio di una scena di nudo.
Del tutto arbitraria è l'associazione tra l'ignoto nome della ragazza e il nome della rosa, come se solo questo fosse la metafora ultima dell'intera vicenda; infine, viene privilegiata la storia d’amore rispetto a un opera in cui l’amore è solo uno dei piani esplorati.

WAYNE

Dati film:

Titolo: Il nome della rosa
Titolo originale: Der Name der Rose
Regista: Jean-Jaques Annaud
Sceneggiatura: Andrew Birkin (romanzo: Umberto Eco)
Interpreti:
  • Sean Connery (Guglielmo di Baskerville)
  • Christian Slater (Adso di Melk)
  • Murray Abraham (Bernardo Gui)
  • Ron Perlman (Salvatore)
Anno: 1986
Paese: Italia, Francia, Germania
Colore: Colore
Durata: 130 minuti
Genere: Giallo/Storico

lunedì 4 aprile 2011

Un tram che si chiama desiderio

Titolo: Un tram che si chiama Desiderio
Titolo originale: A Streetcar Named Desire
Autore: Tennessee Williams
Anno: 1947

Il libro…


Vivien Leigh e Marlon Brando in una scena del film
Una volta sbarcata a New Orleans, Blanche Dubois sale su un tram chiamato –  per l’appunto – “Desiderio” per raggiungere l’appartamento dove la sorella Stella si è trasferita dopo essersi sposata.
Da una cittadina del "vecchio", tranquillo e tradizionalista sud al Quartiere Francese, cuore pulsante di New Orleans, la città più peccaminosa ed equivoca degli Stati Uniti. Un bel salto per la fragile Blanche, donna di mezza età, con qualche nevrosi di troppo, in fuga da una vita tremendamente infelice e dai molti lati oscuri, con segreti imbarazzanti che verranno man mano a galla durante la permanenza a casa della sorella.
Di indole raffinata, sessualmente repressa e dalle mille insicurezze che le derivano da un’esistenza fatta di apparenze da difendere e rispettabilità da tenere in piedi a tutti i costi, Blanche è totalmente fuori posto nel povero appartamento di Stella. È fuori luogo quanto i suoi vestiti costosi, le sue buone maniere, la sua conversazione affettata, il suo comportarsi in punta di forchetta. Di certo la cerchia di persone che frequenta la sorella non è fatta per i profumi, il tè delle cinque e la conversazione sul tempo atmosferico. Abituata agli agi e ai privilegi della classe bianca proprietaria terriera del sud, Blanche si scontra con la realtà della working class sporca, rude e violenta, spesso composta da quegli immigrati nuovi arrivati in America.  Ne rappresenta appieno la carica brutale il marito di Stella, tale Stanley Kowalski, un operaio di origini polacche. Aggressivo, passionale, malvagio ma anche forte e bello, Kowalski non ha rispetto per nulla. Lo stesso rapporto con la moglie Stella – fatto di grandi slanci passionali e di altrettanto violenti litigi – risente dell’indole ribelle e imprevedibile del giovane operaio. Kowalski si lascia andare ai suoi istinti, non modera il suo temperamento così come non tiene a freno la lingua e le mani sia quando si tratta di risolvere le questioni pubbliche che quelle private. 
La convivenza fra i tre non sarà – c’era da scommetterci – per nulla agevole, nemmeno quando Blanche tenta di ambientarsi, frequentando il timido e imbranato Mitch, compagno di poker di Stanley.
È chiaro fin dall'inizio che il compiersi della tragedia è solamente questione di tempo.

…dal libro al film…
 
L’urlo “Hey Stellaaaaaaaaaaaaa!” (vedere filmato qui sotto riprodotto) di un ubriaco e disperato Marlon Brando alias Stanley Kowalski è una di quelle scene che fanno la storia del cinema.
Locandina teatrale
Brando era già stato Stanley Kowalski a teatro, nella prima rappresentazione dell’opera di Tennessee Williams, a Broadway, dicembre 1947. E anche allora il regista era Elia Kazan, prima prova di un’accoppiata vincente che lavorerà in due altre pellicole del calibro di Viva Zapata! (1952) e Fronte del porto (1954).
Impossibile non notare come, pur passando i decenni, Brando rimanga uno dei grandissimi del cinema. Davvero pochi (e chi, poi?) quelli che sono riusciti a riempire lo schermo, a segnare anche con poche battute, con uno sguardo, con un semplice movimento un intero film. Non è questo il luogo né il momento per tessere le sue lodi (ci vorrebbero molti post….). Tuttavia, basti pensare ad Apocalypse Now per capire quanto fosse  carismatico: l’attesa crescente della sua comparsa (nei panni del mitico colonnello Kurtz) segna una pellicola di quasi due ore e mezza.
Analogo discorso per la tormentata interpretazione di Ultimo Tango a Parigi fino al sublime Don Vito Corleone de Il Padrino… (e continuerei solamente per il piacere che suscita ricordare questi capolavori).
In Un tram chiamato desiderio è giovane, al top della forma attoriale (miglior discepolo dell’Actor Studio newyorkese) e fisica. Nel giro di poco si trasforma in una vera icona, star moderna così lontana dai “belli” hollywoodiani dell’anteguerra (alla Clarke Gable, per capirci).
Sprezzante, ribelle, arrogante, sicuro di sé, Brando viveva e recitava senza risparmiarsi.
Ad aiutarlo in questa fatica ci sono una perfetta Vivien Leigh, algida e svampita nei panni della petulante e nevrotica Blanche e Karl Malden, “caratterista” di altissimo livello e dal volto inconfondibile come il suo enorme naso. Stella Kowalski è interpretata da Kim Hunter.

Pellicola stupenda e intensa che – nonostante gli anni – non perde un grammo della sua forza. Lascia stupiti.   

CHARLIE CITRINE

Dati film:
Titolo: Un tram che si chiama Desiderio
Titolo originale: A Streetcar Named Desire
Regista: Elia Kazan
Sceneggiatura: Oscar Saul (dramma: Tennessee Williams)
Interpreti:
·         Marlon Brando (Stanley Kowalski)
·         Vivien Leigh (Blanche Dubois)
·         Kim Hunter (Stella Kowalski)
·         Karl Malden (Mitch)
Anno: 1951
Paese: Stati Uniti
Colore: b/n
Durata: 122 minuti
Genere: drammatico
Internet Movie Data base